Quando iniziai a riempire di parole queste pagine, ormai ben più di un anno fa, non avrei mai pensato di potervi riversare un giorno i miei pensieri più personali e sofferti. Sto parlando dei pensieri più nascosti, di quelle ammissioni con se stessi che difficilmente costituiscono oggetto di un post e che di norma non vengono strombazzate in pubblico.
Come mi è già capitato di raccontare in passato,
Relativismi nasceva sì come sfogo ad un momento particolarmente complicato e difficile, ma, soprattutto, come esercizio di libera riflessione su fatti ed eventi della vita politica e sociale del nostro Paese. Quelli che, per motivi professionali, finiscono tutti i giorni sotto le lenti dei miei occhiali in forma di agenzie di stampa, quotidiani e tg e sui quali, per gli stessi motivi professionali, il mio commento non può spingersi dove vorrebbe. Anzi, fin troppo lontano va...
Mai, invece, avrei pensato fino ad oggi di poter scrivere di fatti ed eventi miei personali ad un livello così profondo del mio essere come quello in cui sono sceso per verificare prima e raccogliere poi la consapevolezza che mi si è improvvisamente rivelata in questi ultimi mesi. Mai. E anche adesso, non nascondo un certo imbarazzo nella scrittura, solitamente molto più fluida nel prendere forma e di certo più spedita nel giungere al punto.
Ieri ho finalmente dato un nome al padre della rabbia che talvolta abita in me. Quella rabbia che, in tempi più recenti, ha esondato dai suoi argini senza freno alcuno, invadendo e inquinando i miei pensieri ogni giorno, ogni ora, ogni istante. Quella rabbia fino a ieri senza un perchè, ma ben puntuale nelle sue manifestazioni, al punto da condizionare fortemente e pesantemente queste ultime curve della mia vita. Una rabbia che improvvisamente acceca e che ti fa apparire come sai di non essere o almeno in un modo del tutto diverso da quello a cui hai abituato la gente intorno a conoscerti.
E pensare che la spiegazione l'ho sempre avuta a portata di mano. L'ho toccata e affrontata in diverse occasioni, opponendo con foga le mie convinzioni a quelle altrui. Ma non ho mai pensato di considerarla all'origine del mio malessere. Fino a ieri.
È qualcosa che ha a che fare con una famosa storiella, meglio conosciuta ai più come "la parabola del figliol prodigo". Anzi, per meglio dire, con la vicenda umana in essa contenuta, ingiustificatamente meno nota e degna - almeno così si evince dalla lettura del vangelo in cui è narrata - della storia che ne ha poi ispirato il nome. Una vicenda umana che da sempre ritengo ben più meritevole di attenzione di quanto "ai soliti più" risulti facile fare con quella di quel delinquente, debosciato e irresponsabile che alla fine di una vita, appunto, da irresponsabile, debosciato e delinquente viene pure ricoperto di onori e gloria da suo padre. E di certo non perchè al sottoscritto interessino questi onori e gloria, ma per l'affermazione di un più alto principio di Giustizia che, proprio perchè figlio della Verità, non può dimenticarsi del probo per ricordarsi del reprobo, seppur pentito.
Ecco, a me questo modo berlusconiano di infischiarsene di chi rispetta le regole e avverte il bello nel giusto, che paradossalmente va di pari passo con una visione altrettanto odiosa e intellettual-sinistrosa di badare sempre a Caino dimenticandosi di Abele, non va davvero giù. Per niente!
Per farla breve, credo di soffrire della sindrome del "figliol probo". Questo, almeno, è il frutto di una diagnosi fatta di tante riflessioni avute con la parte più nascosta di me. Una diagnosi che, nel mezzo del cammin della mia vita, posso ben definire una certezza, corroborata da continue conferme e da una ricostruzione effettivamente convincente del mio passato se effettuata con questa chiave di lettura. Una diagnosi, inoltre, che ben aderisce alle diverse realtà che mi vedono impegnato ogni giorno: tanto sul fronte personale quanto su quello professionale, tanto nella mia storia sociale quanto in quella più interiore.
Un po' come quando, per la prima volta a 19 anni, inforcai il primo paio di occhiali e contemplai il mondo per come era davvero: colori, sfumature, dettagli, primi piani, sfondi. Tutto improvvisamente mi appariva nitido.
Non so, poi, se l'aver tolto questo velo sia foriero più di benefici o meno. Chissà... Tuttavia la consapevolezza di aver compiuto un passo avanti nella conoscenza di me stesso, delle mie potenzialità come dei miei limiti, mi fa star meglio. Decisamente!
Ps: qualche tempo fa scrissi un post dal titolo
Vorrei essere Sam: a rileggerlo oggi, grazie a questa sopravvenuta luce, ritengo contenesse i prodromi della odierna consapevolezza. Ah, l'inconscio!
Mio caro Marco,
RispondiEliminacondivido il tuo ragionamento, vorrei solo fare alcune precisazioni:
La parabola del figliol prodigo viene citata solamente nel Vangelo di Luca. Luca è l'evangelista che ha il "compito" di illustrare la carità divina, l'amore incondizionato del Creatore verso le sue Creature.
Amore che non ha bisogno nemmeno di perdonare, infatti il padre non aspetta che il figlio si scusi, chieda perdono. Non aspetta nemmeno che apra bocca. E' un amore donato a prescindere. Un amore per un figlio perduto e ritrovato.
Si potrebbe continuare con altre citazioni bibliche, come la parobola della pecorella smarrita, come quando si fa più festa in paradiso per un peccatore pentito, come il dottore viene per i malati e non per i sani, etc etc etc...
Dopo queste precisazioni, comunque, torno ad essere concorde con Marco. Anche perchè questi casi sopra citati sono comportamenti che solo un cristiano perfetto può adottare e io non mi sento tale. Pertanto nella mia "normalità" mi vene difficile comprendere l'uccisione del vitello grasso per chi non si merita manco l'osso scartato del vitello.
C'è solo una cosa che critico nel ragionamento di Marco. Ed quello che il "giusto" non dovrebbe avere onori, perchè in teoria ha fatto solo ciò che gli compete. Dovrebbe essere la norma comportarsi bene, lavorare il giusto, onorare il prossimo, etc etc etc.
PErò questa è solo utopica teoria...