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Trump people

A VOLTE RITORNANO. Sarebbe stato troppo facile e scontato come titolo. Ormai troppe cose e troppe persone ritornano e non più solo a volte. Il problema, semmai, è COME ritornano. L'era del secondo Trump, 47° presidente degli Stati Uniti d'America, inizia oggi. E prende il via con una vittoria schiacciante negli Stati chiave e nel voto popolare. Una vittoria che vede il partito Repubblicano impadronirsi delle istituzioni da cui dipendono il potere esecutivo e legislativo, con Trump alla Casa Bianca e Senato e Camera - a meno di clamorose sorprese nello spoglio degli ultimi voti - che sono a un passo dal tingersi del rosso del Republican Party.  A questo si aggiunga la maggioranza dei 9 giudici che compongono la Corte Suprema, la più alta corte della magistratura federale Usa, di cui tre nominati dal tycoon durante il precedente mandato, due da Bush figlio e uno da Bush padre, mentre sono solo tre quelli di nomina democratica (due da Obama e uno da Biden). In questo modo salta de

Crisi: Obama se ci sei abbatti il Muro (Street)!

Il vento di ribellione che all'inizio dell'anno ha soffiato forte fra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo è davvero contaggioso. Prima ha spazzato via alcuni dei regimi nordafricani fra i più radicati e conservatori, che da tempo immemore continuavano a garantire ingiusti privilegi verso pochi eletti al potere (e loro famiglie), incuranti del malessere e del disagio crescente del popolo. Poi si è riflesso sulle sponde opposte, quelle europee, secondo il semplice principio che vuole che siano i più poveri a cadere per primi sotto le tempeste della vita. E qui, con folate più o meno rigide, quel vento ha smosso le coscienze di milioni di greci e spagnoli, soprattutto. In maniera diversa, magari; con tonalità diverse, magari. Se non per il grado di presunta civiltà o meglio di responsabilità civile dei popoli, certamente per il differente stato di disperazione sociale dovuto alla crisi presente e per le severe richieste che i rispettivi governi hanno posto loro innanzi allo scopo (o con la scusa) di fronteggiare la crisi futura. Così sono nate le oceaniche manifestazioni dei greci e le occupazioni di piazza dei cosiddetti 'indignados' spagnoli.

Ora il vento della protesta e delle rivendicazioni ha varcato l'Atlantico e, come per milioni di immigrati in più di un secolo di storia, anch'egli è approdato nella Grande Mela per poi diffondersi fra le terre a stelle e strisce. E a New York ha messo radici e tende nella strada più sfacciatamente simbolo (e forse origine) della crisi economica che sta strozzando il mondo intero: Wall Street. Già, perchè dopo essersi scoperti drammaticamente vulnerabili agli effetti del terrorismo più sanguinario (o per meglio dire, a fenomeni da noi meglio conosciuti come stragismo di Stato), dopo aver toccato pesantemente con mano gli effetti della disoccupazione di massa e della recessione vera, dopo essersi improvvisamente visti declassare come meno affidabili dalle agenzie internazionali di rating alla stregua di un qualsiasi Paese europeo o peggio, alla fine gli americani hanno deciso che era arrivata l'ora di spegnere la tv, mettere da parte il sacchetto con hamburger e cocacola e scendere in piazza davvero. Per rivendicare quello che altri prima di loro hanno iniziato ad avvertire venir sempre più meno (scusate il gioco di parole): la libertà. La libertà di godere di quei diritti che, a parole, venivano loro sbandierati davanti e assicurati da tempo; di quella libertà all'autodeterminazione del popolo americano che film e libri propagandano urbi et orbi da una vita come il primo valore garantito a lettere di fuoco nella Carta costituzionale. E invece...

E invece leggiamo dell'iniziativa di protesta di centinaia, forse migliaia di manifestanti del movimento 'Occupy Wall Street' (versione americana degli Indignados comparsi per la prima volta in Spagna) che da tre settimane continuano ad occupare Zuccotti Park, nel distretto finanziario di Manhattan, coi loro materassini, laptop, cartelli e chitarre. Neppure l'arresto in massa di oltre 700 attivisti, sabato scorso, è riuscito a smorzare il loro entusiasmo nè a zittire una voce che urla e punta il dito contro il salvataggio governativo delle banche, il tasso record di disoccupazione, i pignoramenti delle case e l'affermazione dei più basilari diritti civili. Leggiamo sul Corriere della Sera:
Da giorni anche i media piu' progressisti faticano a catalogare un fenomeno che sfugge ad un'unica, preesistente etichetta perche' e' tante cose insieme. Basta ascoltare i loro slogan per capire che questa non e' Woodstock e neppure le marce anti-Vietnam. 'Meditiamo tutti insieme per il cambiamento sociale', un manifestante esorta i dimostranti raccolti in una seduta yoga, mentre uno striscione chiede di rimuovere Andrew Jackson dalla banconota da 20 dollari 'per la sua brutalita' verso i nativi americani'. 'Siamo il 99 per cento del Paese', spiega Rose Perison, disoccupata nonostante un master in Storia, ricordando come 'l'i per cento degli americani detiene piu' ricchezza del restante 99 per cento'. Mare Adier, che prima di lanciare il blog super-indignado The Bloody Crossroads era uno studente di Talmud e Torah in Israele, se la prende col 'capitalismo sfrenato che vige dalla fine degli anni 70', contro 'l'assalto ai sindacati che ha ridotto gli iscritti al 12 per cento della forza lavoro' e contro una nazione 'dove 46 milioni di americani vivono sotto la soglia di poverta' e 45 mila muoiono ogni anno per malattie curabilissime'. 'Il nostro movimento s'ispira a piazza Tahrir e alla primavera araba', spiega il 20enne web designer Tyler Combelic, portavoce dei dimostranti. 'Anche se loro non devono deporre dittatori e non ci sono spari nell'aria, l'uso sapiente di Twitter e degli altri social media e' identico', teorizza il columnist Nicholas Kristof, stupefatto dalla straordinaria organizzazione di Zuccotti Park, suddivisa tra area ricevimento, zona per i media (immortalata da Michael Moore, Susan Sarandon, Cornell West e Roseanne Barr), clinica, libreria e ristorante dove arrivano pizze e panini ('OccuPie Special') pagati con la carta di credito dai sostenitori in tutto il mondo.
Un mare di uomini e donne, giovani e non più giovani, appartenenti a categorie sociali che hanno costituito il propulsore che ha spalancato ad Obama le porte della Casa Bianca, anche lui, a suo tempo, trascinato da un vento che soffiava forte tutta la sua voglia di cambiamento. Quell'Obama che, già da presidente, si riferiva al nascente fenomeno della Primavera nordafricana con parole di trasudante entusiasmo e, al contempo, di ferma condanna contro quei regimi che stavano facendo di tutto, compreso l'uso della violenza, per tentare di impedirne l'esplosione:
''Diciamolo con chiarezza: gli Stati Uniti stanno accanto al popolo della Tunisia e appoggiano le aspirazioni democratiche di tutti i Paesi''. Cosi' Obama davanti al Congresso. Oggi le ''congratulazioni'' del presidente ai tunisini le ha riferite di persona il suo inviato a Tunisi Jeffrei Feltman. Ma non solo. ''Sono qui per portare le congratulazioni al popolo tunisino'', ha detto. ''Gli Stati Uniti sono con il popolo tunisino'', ha ribadito, confermando poi il giudizio positivo per ''i passi fatti dal governo di unita' nazionale'' nell'ottica di un processo che porti alle elezioni all'insegna ''dell'inclusione, libera e giusta''. Pero' le notizie dall'Egitto sollecitano lo sguardo a tutta la regione e allora il messaggio del diplomatico e' chiaro: ''Mi aspetto che i governi del mondo, guardando alla Tunisia, si rendano conto che i giovani e la societa' civile sono parte della soluzione'', ha detto, ''le restrizioni cui era sottoposta la societa' civile in Tunisia erano davvero pesanti'' e, sebbene ''esiti nel tracciare similitudini - ha continuato - sono diversi i Paesi che hanno in comune le stesse sfide''. [Ansa, 26/01/2011]

Il presidente ha ricordato di essersi espresso per la democrazia nel mondo arabo già due anni fa: "Ero al Cairo appena dopo essere stato eletto presidente, e ho detto che tutti i governi devono mantenere il potere per consenso, non per coercizione". [TMNews, 29/01/2011]

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha espresso parole di condanna nei confronti delle repressioni violente contro le manifestazioni anti-governative che si stanno allargando a macchia d'olio nei paesi del Medio Oriente e del Nordafrica. ''Sono profondamente preoccupato dalle notizie delle violenze in Bahrein, Libia e Yemen'', ha scritto Obama in un comunicato. ''Gli Stati Uniti condannano l'uso della violenza da parte dei governi nei confronti dei pacifici manifestanti di questi paesi''. [Asca, 18/02/2011]
Quello stesso Obama che nel giorno dell'insediamento come 44mo presidente degli Stati Uniti (20/01/2009) non esitava a dire:
"La domanda che formuliamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funzioni o meno - se aiuti le famiglie a trovare un lavoro decentemente pagato, cure accessibili, una pensione degna. Laddove la risposta sia positiva, noi intendiamo andare avanti. Dove sia negativa, metteremo fine a quelle politiche. E coloro che gestiscono i soldi della collettività saranno chiamati a risponderne, affinché spendano in modo saggio, riformino le cattive abitudini, e facciano i loro affari alla luce del sole - perché solo allora potremo restaurare la vitale fiducia tra il popolo e il suo governo".
Mr. President, per favore, lasci che l'ipocrisia e il politichese abbondino sulla bocca dei politici italiani. E dia sostanza alle parole scandite nel corso della sua cavalcata elettorale ascoltando la voce del suo popolo: quelle urla che nascono dal disagio reale, dalla disperazione, dal disconoscimento di quei diritti civili di cui l'America si è fatta tronfia nell'era contemporanea davanti a tutto il mondo. Non si confonda, Mr. President: è necessaria una svolta. La dia lei. Non possiamo mica aspettare Nembo Kid...

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